Perché l’Europa non naufragherà. Formiche, 19 settembre 2015

Quella di scaricare sull’Europa la colpe di quasi tutto ciò che non va in Italia è un vizio delle nostre classi dirigenti che si è intensificato negli ultimi anni. La conseguenza è che una parte dell’elettorato ha perso fiducia nell’Europa e nell’Euro, mentre un’altra crede ancora all’Europa, ma a una “Europa diversa” cui si attribuiscono proprietà salvifiche che non ha e non può avere. Per contribuire a mettere a punto un giudizio sensato sullo stato di salute reale dell’Europa è utile un confronto con gli Stati Uniti d’America sui due temi chiave dei default sovrani e dell’immigrazione.

Riguardo ai primi, lo sterminato dibattito di questi anni può essere sintetizzato, ai fini che qui interessano, in poche righe. È vero che, in un’autentica nazione federale come gli Stati Uniti d’America, una crisi come quella greca avrebbe probabilmente conseguenze meno gravi per via sia del ruolo molto maggiore che là assume il bilancio dello stato centrale, sia della maggiore mobilità dei fattori. È altrettanto vero però, come dimostra la situazione attuale di Portorico, che in caso di fallimento il governo federale non interviene con piani di salvataggio, né la Fed compra titoli di debito degli enti in crisi. Complessivamente, tenendo conto degli stabilizzatori automatici e delle decisioni discrezionali, sul piano della solidarietà dimostrata verso i paesi in crisi –a cominciare dalla Grecia– l’Europa ha poco da invidiare agli Stati Uniti.

Il tema dell’immigrazione richiede un ragionamento più complesso, ma anche qui una cosa è certa. Da un lato non è vero che tutta la colpa dei nostri problemi migratori è dell’Europa, che non saprebbe mostrare sufficiente solidarietà nei confronti dei paesi di approdo dei migranti; dall’altro non è vero che se avessimo gli Stati Uniti d’Europa il problema sarebbe risolto.

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Basta riflettere sul fatto che negli Stati Uniti d’America sono presenti quasi dodici milioni di immigrati clandestini e che il tema delle “deportation” – così vengono chiamati i rimpatri – è da decenni al centro delle campagne elettorali e delle azioni dei governi. Esiste un muro fra Messico e Stati Uniti e su quel confine si contano qualcosa come cinquemila morti negli ultimi trent’anni. Considerando che si tratta di un confine di terra, questo è un numero spaventoso che certamente non è attribuibile a eventi fuori dal controllo delle autorità. Va considerato, poi, che l’identificazione delle persone è molto più facile che nel Mediterraneo, così come è molto più facile rimpatriare un messicano che un libico: in Messico, a differenza che in Libia, esiste un’autorità statale solida e certamente attenta ai rapporti economici e politici con gli Stati Uniti. Eppure il problema continua ad esistere e, secondo i sondaggi, è considerato “serio o molto serio” dalla maggior parte degli elettori americani. Il recente successo di Donald Trump è in gran parte attribuibile alla sua posizione sull’immigrazione. La cosa interessante è che, sul tema dell’immigrazione, Trump parla degli Stati Uniti esattamente come il nostro Matteo Salvini parla dell’Europa, con toni financo più aspri. Nella home del suo sito, il candidato repubblicano pone grande enfasi su tre punti. Primo, “una nazione che non ha confini non è una nazione”: per Trump gli Usa come nazione non esistono, esattamente come per Salvini – o anche per Grillo – non esiste l’Europa. Secondo, “una nazione che non fa rispettare le leggi non è una nazione” e questo per il semplice motivo che un immigrato illegale è illegale. Terzo, “una nazione che non è al servizio dei propri cittadini non è una nazione”. Gli Stati Uniti non sarebbero dunque al servizio degli americani perché i soldi vanno agli immigrati e non agli americani bisognosi. A ognuno di questi punti vi sono risposte convincenti che provengono non solo dall’amministrazione Obama, ma anche da alcuni degli altri candidati repubblicani. Dopotutto il problema non è affatto nuovo: esiste da decenni e nessuna amministrazione, repubblicana o democratica, è stata in grado di risolverlo. Il problema principale che deportazioni di massa non sono possibili, perché metterebbero in crisi sia il Messico, che non saprebbe come ricevere i rimpatriati, sia una buona parte dell’economia degli Stati Uniti, che vive del lavoro dei migranti.

I problemi migratori che affrontiamo in Europa sono diversi e probabilmente più complessi di quelli degli Stati Uniti. E non c’è dubbio che li affronteremmo meglio se l’Europa avesse poteri analoghi a quelli del governo degli Stati Uniti in materia di controllo delle frontiere e di politica estera. Ma da qui a dire che l’Europa è morta ce ne passa, così come avrebbe poco senso illudersi che se ci fosse un vero governo europeo i problemi sarebbero già risolti.

Il fatto che, pur fra mille difficoltà ed in assenza di istituzioni adeguate, stiamo riuscendo ad affrontare sfide formidabili ci induce piuttosto a ritenere che la strada di una maggiore integrazione, nei termini del rapporto consegnato lo scorso giugno dai cinque presidenti delle istituzioni UE, non è affatto impossibile. L’Europa ha istituzioni inadeguate, ma gode di discreta salute, migliore di quanto non appaia, e sta dimostrando di avere l’energia per riformarsi.

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