Gli italiani nutrono sentimenti quanto mai ambivalenti nei confronti della Germania. Da un lato assai spesso additano questo o quell’aspetto della società tedesca come modello da imitare o comunque come esempio di buona pratica da cui trarre ispirazione. Dall’altro, imputano alla Germania varie colpe, più o meno gravi, nella gestione delle politiche economiche, in particolare da quando è scoppiata la crisi dei debiti sovrani che tanto ha pesato e sta pesando sui destini dei popoli europei in questi ultimi anni. Questa ambivalenza divide la politica italiana, al punto che la divisione fra “amici” e “avversari” della Germania è diventata una linea di separazione che taglia trasversalmente gli schieramenti ed è forse più importante delle tradizionali faglie ideologiche della politica italiana ed europea. Una delle accuse più pesanti che si muovono vicendevolmente i politici è di agire secondo i desiderata della Germania o peggio ancora e, impropriamente personalizzando, della sua “cancelliera di ferro”. Qualche intellettuale, anche di notevole fama, ha resuscitato fantasmi del passato e narra di immaginari piani tedeschi volti a dominare l’Europa attraverso la gestione delle politiche economiche dell’eurozona.
Per certi versi, la Germania sta prendendo il posto degli Stati Uniti nei sentimenti di molti italiani e in generale dei popoli dell’Europa cosiddetta periferica.
Con i sentimenti è difficile ragionare. Generazioni di giovani hanno bruciato bandiere americane nelle piazze del mondo nel momento stesso in cui adottavano non solo tecnologie ma anche modelli culturali e di comportamento che proprio in quel paese erano nati e si erano sviluppati. Con quelle generazioni era difficile argomentare che, al di là degli errori commessi, gli Stati Uniti sono stati e sono tuttora un baluardo essenziale per la libertà e la democrazia nel mondo. Con l’attuale generazione di “nemici della Germania” il terreno di confronto non è la politica internazionale, ma piuttosto la politica economica e l’atteggiamento verso la costruzione europea. Con costoro è difficile argomentare quello che è il nucleo centrale di questo volume, ossia che il successo tedesco è principalmente il frutto di riforme e sacrifici, che a loro volta sono stati possibili grazie all’elevato grado di coesione sociale e alla straordinaria stabilità politica che dal dopoguerra caratterizza la Germania. Né è facile spiegare che questo successo non è stato ottenuto a detrimento degli altri paesi dell’area dell’eurozona e tantomeno che esso non ha nulla a che fare con progetti di dominio. E’anzi semmai vero il contrario e cioè che, per motivi storici più che comprensibili, le disfunzionalità dell’Europa derivano proprio dalla riluttanza della Germania ad assumere quel ruolo egemone che la forza della sua economia forse richiederebbe.
E’ ben possibile che, data la gravità della crisi e il suo prolungarsi oltre ogni ragionevole previsione, le politiche che sono oggi necessarie per salvare l’Eurozona siano quelle che hanno seguito gli Stati Uniti negli ultimi anni, ossia che per evitare il collasso si debba dare legittimità a concetti assolutamente eterodossi che in Europa pensavamo di aver abbandonato per sempre, quale ad esempio la monetizzazione dei disavanzi pubblici. Lo ha suggerito in modo abbastanza esplicito lo stesso Mario Draghi. Ed è probabile che queste politiche comportino un confronto molto aspro non solo con i tedeschi ma con tutti i paesi in surplus dell’Unione Europea che non soffrono la crisi, hanno la piena occupazione e non capiscono per quale motivo dovrebbero mettere a rischio la stabilità economica conquistata al costo di tanti sacrifici. In questo confronto occorre evitare di fare delle caricature delle posizioni altrui, vanno riconosciuti i propri limiti e i propri errori, va rispettata la verità dei fatti.
O le classi dirigenti sapranno fare questa operazione verità spiegando le reciproche ragioni in modo chiaro ed onesto agli elettori oppure, se prevale la demagogia, diventerà molto concreto il rischio di quell’implosione politica dell’Europa di cui abbiamo avuto un segnale chiaro nelle elezioni del maggio scorso.
Questo libro dà un contributo importante alla reciproca comprensione, in quanto spiega al lettore italiano i fattori di successo della Germania in tema di education, lavoro e crescita. Un successo che è tutto fatto in casa e ha ben poco a che fare con le dinamiche dell’area dell’euro.
Una delle caricature più diffuse da noi e più fastidiose per i nostri interlocutori tedeschi è quella di una Germania che scarica sugli altri i propri problemi. La prova di ciò starebbe nel fatto che la Germania ha un surplus di bilancia dei pagamenti correnti che la stessa Commissione Europea ha giudicato eccessivo. Ecco dunque che noi siamo in disavanzo proprio perché loro sono in avanzo. E dunque loro esportano, il che mette in moto produzione e lavoro domestici, mentre noi importiamo il che spiazzerebbe le nostre produzioni e il nostro lavoro. Al di là delle molte osservazioni tecniche che si possono fare, ad esempio sull’apporto fondamentale che la componentistica italiana fornisce all’industria tedesca, questa considerazione lascia l’amaro in bocca perché sembra suggerire che i più bravi, perché più competitivi, dovrebbe appiattirsi sui livelli più bassi per non fare un danno ai meno bravi. Con questa logica le regioni del nostro Mezzogiorno potrebbero accusare le regioni del Nord di eccesso di competitività e chiedere che al nord gli imprenditori rinuncino a innovare. L’approccio giusto è quello opposto in cui si chiede a tutti di dare il meglio in termini di competitività e di crescita. Tutti noi dovremmo cercare di essere competitivi come la Germania. Non è vero che se ciò avvenisse la Germania dovrebbe rinunciare al proprio benessere. Dovrebbe rinunciare a una parte delle proprie esportazioni, ma con una maggiore competitività distribuita su tutto il continente sarebbe tutta l’Europa a crescere di più.
Prescindendo dalle considerazioni strettamente economiche, questo è un esempio di un’indubbia virtù del modello tedesco, quello di essere una macchina che produce Pil e posti di lavoro anche nel mezzo di una gravissima crisi internazionale, che viene trasformata polemicamente in un difetto e addirittura in una colpa grave nei confronti dei paesi vicini. Lo stesso fatto che da una quindicina di anni la Germania sperimenti una crescita salariale sostanzialmente in linea e a volte persino inferiore a quella della produttività dovrebbe essere considerato un punto a favore della Germania o comunque come un naturale adeguamento alla globalizzazione, in un contesto in cui i trattati Europei assegnano alla BCE l’obiettivo prioritario di combattere l’inflazione. Ma anche qui i critici dicono che questo sarebbe stato fatto con l’obiettivo di obbligare gli altri paesi – chissà perché – alla deflazione salariale. A posteriori è vero che si sono create differenze non sostenibili nelle dinamiche salariali fra paesi. Ma non si capisce perché la responsabilità dovrebbe ricadere su chi ha saputo moderarsi piuttosto che su chi non lo ha saputo fare.
Un altro aspetto della narrazione corrente sull’Eurozona è l’accusa alla Germania di aver tratto indebiti vantaggi dall’euro. Se non ci fosse stato l’euro la Germania avrebbe apprezzato il proprio tasso di cambio e non avrebbe avuto lo stesso successo nelle esportazioni. Il fatto in sé non stupisce. Ma è strano che lo si trasformi in un capo d’imputazione dal momento che è ben noto che l’establishment economico tedesco ha sostanzialmente subìto la creazione dell’euro. La moneta unica fu un obiettivo politico prioritario della Francia e dell’Italia, che pensavano così di riappropriarsi pro quota di quella sovranità monetaria che, nelle tormentate vicende del sistema monetario europeo, avevano perso a favore della Bundesbank. Non fu certo un obiettivo della Germania, anche se un grande politico tedesco, Helmut Kohl, si convinse che la moneta unica avrebbe potuto aiutare il processo di consolidamento della pace in Europa e far avanzare l’idea di un continente politicamente più coeso e più unito.
Queste narrazioni polemiche traggono alimento da errori e ritardi dell’intera Europa, non solo della Germania, ad esempio nella gestione della crisi greca. Ma trascurano la circostanza che i principali beneficiari della moneta unica sono stati i paesi periferici, che per molti anni hanno acquisito la stessa credibilità della Germania, con la conseguenza che i loro tassi di interesse sono scesi su livelli mai sperimentati prima.
Posto che si riesca a sgombrare il campo da teorie davvero poco plausibili, ci si deve chiedere quali siano i fattori reali del successo tedesco. Il libro si concentra sull’education e sulla ricerca, mettendo a fuoco il tema dell’istruzione a vocazione professionale (a livello sia di scuola secondaria sia di università) e dei rapporti fra imprese e ricerca pubblica.
Esso non trascura l’analisi degli aspetti istituzionali e di cultura politica che hanno reso possibile la messa in opera di questi sistemi complessi. Vale la pena di sottolineare quanto sia stretto il legame fra scuola e sistema istituzionale. Basti riflettere sull’estrema complessità tecnica, concettuale e organizzativa del sistema duale. Questo sistema funziona in Germania, e non da noi, perché tutti gli attori del sistema collaborano per un fine comune. In particolare funziona in Germania, come ben noto, la collaborazione fra sindacati e organizzazioni degli imprenditori e funziona la collaborazione fra stato centrale e Landers. Per capire la complessità del sistema basti pensare che le qualifiche riconosciute a livello federale sono ben 344 (da noi sono 22), che queste devono essere continuamente aggiornate sulla base di input che provengono dalle aziende e che corsi per così tante diverse qualifiche non possono certo essere erogati in ciascuna delle località in cui un giovane può trovare lavoro. Il che richiede di accorpare determinati corsi in alcune località concentrandoli in certi periodi dell’anno. E richiede di trovare gli insegnanti giusti in quei periodi e in quelle località. Con tutta evidenza si tratta di un grado di complessità concettuale e organizzativa che è un multiplo di quella della scuola dell’obbligo, con cui noi a ogni avvio di anno scolastico ci troviamo in grande affanno. La Carta Fondamentale affida l’istruzione di base alla competenza dei Lander, ma riserva allo Stato l’istruzione professionale. Questo aiuta evidentemente a evitare quella frammentazione del sistema e delle qualifiche che abbiamo sperimentato in Italia. E tuttavia i Lander o le locali Camere di Commercio che hanno un ruolo chiave nel controllo della qualità dei corsi potrebbero introdurre ogni sorta di ostacolo per impedire che il sistema funzioni in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. Da noi la formulazione in vigore del Titolo V affida l’istruzione professionale alla competenza delle Regioni. Appare però incomprensibile che esse non collaborino al fine di creare un sistema davvero unico e funzionante su tutto il territorio nazionale.
Un altro fattore chiave è la stabilità del quadro regolatorio e delle disponibilità finanziarie. Da noi, le regole cambiano a ogni cambio di governo. Sistemi complessi, come quelli che sono puntualmente descritti nel secondo e terzo capitolo del libro con riferimento all’apprendistato professionalizzante e all’educazione terziaria con vocazione professionale, richiedono anni per essere avviati, sperimentati e messi a regime.
Questa stabilità delle regole è una costante delle istituzioni tedesche e non è facilmente ascrivibile a una norma costituzionale o alla legge elettorale. Nel primo capitolo del libro, dedicato allo scenario politico e culturale tedesco, forse ciò che più colpisce il lettore italiano è la tabella 1 che elenca le coalizioni di governo che si sono succedute in Germania dall’approvazione della Carta Fondamentale nel 1949 fino ad oggi. Balza agli occhi che i primi ministri sono stati soltanto otto, meno dei Presidenti degli Stati Uniti. Eppure si tratta, come nel caso dell’Italia, di un sistema parlamentare in cui il Parlamento può dare e togliere la fiducia in qualunque momento e in cui i parlamentari sono eletti con un sistema sostanzialmente proporzionale, che come barriera alla proliferazione delle formazioni minori non ha meccanismi maggioritari ma solo la soglia del 5%.
Oltre agli ostacoli di natura istituzionale di cui si è detto sopra, un diverso e più intenso rapporto fra scuola e lavoro è stato reso difficile in Italia anche da barriere di natura ideologica. Sulle questioni della scuola, le classi dirigenti italiane sono state fortemente influenzate dall’idealismo crociano che pone al centro di tutto il pensiero astratto, ossia la filosofia rispetto alla quale le scienze svolgono un ruolo ancillare. La tecnologia e i mestieri stanno ancora più in basso nella gerarchia dei valori crociani. Questa impostazione si è sposata agevolmente con la diffidenza e, in molti casi, la vera e propria ostilità verso le imprese e il mercato che hanno segnato il pensiero marxista e di una parte dei movimenti cattolici. Il lungo sessantotto italiano ha rappresentato un fertile terreno di coltura di queste diffidenze e ostilità all’interno delle nostre scuole e università.
Non è facile spiegare perché tali ideologie non abbiano avuto successo in Germania o siano state rapidamente abbandonate, come ben documentato in questo volume. Il fatto certo è che la Germania è da sempre orgogliosa dei propri sistemi di raccordo fra scuola e lavoro, fra istruzione formale e mestieri ai diversi livelli. La logica di questi sistemi è ben sintetizzata da una frase attribuita a Baruch Spinoza, un grande filosofo che tuttavia nella vita si mantenne facendo un mestiere artigiano: “Un uomo colto che non conosca un mestiere prima o poi diventa un poco di buono”. E così più del 60 per cento dei giovani tedeschi frequenta la formazione professionale come apprendista in età diverse tra i 15 e i 29 anni, per un percorso che dura fra i due e tre anni e mezzo.
In Italia invece ha prevalso una cultura ostile all’impresa e lontana dal lavoro, che ha portato per molti anni a svalutare gli istituti tecnici e professionali. Quella cultura ha reso ancor più difficile quel rapporto fra imprese e centri di ricerca pubblici che è essenziale per la competitività, ma assai difficile da creare per imprese di piccole dimensioni quali quelle che caratterizzano il nostro tessuto produttivo. Un’analisi comparativa puntuale dei sistemi tedesco e italiano della ricerca e dei loro rapporti con le imprese è contenuto nel quarto e ultimo capitolo del libro. Le differenze sono davvero molte e tali da spiegare agevolmente il divario di capacità innovativa rispetto all’industria tedesca, divario che è sintetizzato da un numero di brevetti europei procapite che in Germania supera di oltre quattro volte il livello dell’Italia.
Probabilmente le originarie motivazioni ideologiche che spiegano la separazione fra scuola e lavoro in Italia non sono più operanti. Quasi tutti gli stakeholders e quasi tutti i governi almeno dalla metà degli anni novanta dichiarano di voler sviluppare l’apprendistato per il conseguimento della qualifica professionale e di voler favorire le aggregazioni fra imprese, singole o consorziate, e i centri di ricerca pubblici. Un’affermazione molto netta in tal senso è contenuta nel capitolo V del recente documento “La buona scuola” che enuncia le linee guida del governo italiano riguardo la scuola, l’università e la ricerca. Quel capitolo porta un titolo intenso che ben riassume il paradosso italiano: Fondata sul Lavoro. La Repubblica è formalmente fondata sul lavoro come detta il primo articolo della Costituzione, ma nel concreto il lavoro è espunto dal nostro sistema formativo quasi che fosse un estraneo o un terzo incomodo. Dovrebbero dunque essere mature le condizioni per un cambiamento radicale del rapporto fra scuola e lavoro. Ma come noto non c’è nulla di più ingannevole del proverbio secondo cui “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Abbiamo cominciato, abbiamo superato le barriere ideologiche che ci hanno bloccato per mezzo secolo, ma rimangono da superare formidabili ostacoli di natura pratica, finanziaria e di assetto istituzionale.
Associazione TREELLE: Educare alla cittadinanza, al lavoro e all’innovazione: Il modello tedesco e proposte per l’Italia
La pubblicazione sarà disponibile e scaricabile a partire dal 22 gennaio dal seguente link http://www.inumeridacambiare.it/